Nel deserto argentino di Doha – deserto di gioco, di tiri, di tutto – l’unica bolla d’acqua non poteva che essere lui. Leo Messi. Sinistro pettinato dal limite, a filo d’erba, su tocco di Di Maria, e palla nell’angolino. Con Diego dentro, a due anni dalla morte, e l’incubo del baratro davanti. Era il 64’: finiva lì, nel delirio del dieci, un’ordalia mai cominciata. Con il Messico del Tata Martino a far catenaccio (fuori Lozano, nel dubbio) e gli opliti di Scaloni a ronzargli attorno, a passo d’uomo.
Persino il capitano pareva vinto dal nulla che lo circondava e al quale, a 35 anni, non riusciva a opporsi. Lo subìva. Triste, solitario y ornamental. Ma i geni sono geni proprio per questo. Hanno antenne che noi non immaginiamo. Il talento che con l’Arabia, pur segnando su rigore, non aveva fatto la differenza, l’ha fatta stavolta.
Restano i problemi, seri, di una manovra indecente, di un Lau-Toro naufrago, di un Di Maria periferico, di un de Paul bulimico. Qualcosa Scaloni ha avuto dai cambi. Da Enzo Fernandez, soprattutto: elementari al River, medie al Benfica. Classe 2001. Entrato sullo zero a zero, ha portato briciole di qualità in mezzo e siglato il raddoppio: di destro, a giro, su invito di Leo. Un golazo, dicono dalle sue parti. Nessuno cantava più Cielito lindo: né in campo, né in curva. Dall’angolo del Messico lanciavano l’asciugamano. Leo palleggiava sornione sopra macerie che, d’improvviso, avevano restituito vite. Nelle redazioni, da Buenos Aires a Rosario, «fracaso» diventava «Vamos Argentina» E Orsato? Bravo.